Teatro

BERLINO, IL TROVATORE

BERLINO, IL TROVATORE

Forse è lo spettacolo più atteso della stagione il Trovatore della Staatsoper (purtroppo non ancora risanata e ancora ospite nel raccolto Schiller Theater) per il debutto di due grandi della lirica per la prima volta insieme sul palcoscenico:  Anna Netrebko e Placido Domingo. La produzione non è nuova: ha debuttato nel maggio scorso al “Theater an der Wien” durante le Wiener Westwochen con la regia di Philipp Stölzl, regista teatrale e cinematografico, noto in Germania soprattutto come autore di videoclip di gruppi rock e metal come i controversi Ramstein. E questo Trovatore è sicuramente “sui generis”, ispirato ai fumetti, al teatro delle marionette e delle ombre ma anche al circo e al teatro di strada con incursioni nei videoclip. La trama del Trovatore del resto, così bizzarra e inverosimile, giustifica in parte la parodia e i suoi personaggi, diversamente da altri ruoli verdiani, si possono maggiormente prestare alla caricatura o alla marionetta.

La scena fissa di Conrad Moritz Reinhardt vede l’interno di un cubo bianco sulle cui facce si aprono delle finestrelle da cui escono i personaggi e su cui vengono proiettati dei video surreali (interpretati dai cantanti stessi) che funzionano come una sorta di ironico fotoromanzo di commento alle arie. Olaf Freese con un efficace gioco di luci e ombre (bianchi e neri, gialli e verdi accesi quasi fluo) anima l’interno del cubo e contribuisce a caratterizzare, amplificandola, la situazione drammatica.  Le milizie di Ferrando, in neri abiti secenteschi con tanto di gorgiere, tube e baffi da cattivoni, hanno ridicole movenze da automi (variazioni ondeggianti sul passo dell’oca) che ben si sposano, non senza ironia, sulla ritmica verdiana, ovvero sul tanto vituperato zum-pa-pa e il gioco di ombre nere ne esalta la perfidia da cartoon. Cattivi da strapazzo che sparano con il cannone contro il pubblico con tanto di fumo e botti  mandando però  in frantumi le pareti alle loro spalle: di nuovo un effetto video da fumetto.

Manrico è decisamente buffo, sembra il folletto della pubblicità del Thermogène, con un ciuffo smisurato, le occhiaie e il liuto sulle spalle; con un Manrico così la “Pira” acquista comicità involontaria e il Do sarebbe di troppo. La zingara è un clown con la smisurata parrucca arancione, gli occhi cerchiati di rosso e la gonna d’arlecchino, una strega innocua schermita dalla folla cattiva che coi forconi la stuzzica e deride: più personaggio da Tim Burton che non da fosco dramma, fa quasi tenerezza e rimanda a una memoria popolare tedesca di feste paesane, fiabe e orsi ballerini. Leonora, dai lunghi capelli biondi color di stoppa  il volto bianco di porcellana e la boccuccia a cuore, si muove sulla scena come una bambola o una smarrita Alice in wonderland, si rotola per terra infagottata nel vestito coi cerchioni, si affloscia contro la parete come un giocattolo abbandonato privo di vita propria. Ma la Leonora caricaturale cede presto il posto alla donna appassionata e col progredire della vicenda si avverte una virata nel dramma: Leonora si pugnala durante il “Miserere” e il corpetto macchiato di sangue sembra scandire una corsa contro la morte mentre rivoli di sangue scendono lungo le pareti.

Anna Netrebko ci piace anche perché non si prende troppo sul serio e questa Leonora, così naive da risultare quasi stupida, sembra divertirla e dimostra di saper stare al gioco.
In attesa di confrontarsi con Wagner è ora decisa ad affrontare Verdi e lo fa con la sua voce inconfondibile, decisamente importante e scura. E’ un debutto e alcuni passaggi andranno affinati, come il climax di “Tacea la notte placida” che necessita di maggiore fluidità verso l’estremo acuto, ma è tale l’opulenza vocale, la bellezza timbrica, il pathos sensuale, il fuoco che la voce emana che la Netrebko toglie il fiato e ammalia con un “D’amor sull’ali rosee” strepitoso per il pieno controllo delle mezzevoci e della dinamica, mentre cammina in equilibrio  lungo lo spigolo esterno della pedana.
Placido Domingo non ci aveva troppo convinti nelle ultime prove baritonali ma come Conte di Luna, a parte la cautela iniziale, è ancora capace di dare la “zampata”, assolutamente credibile per la presenza scenica aristocratica da  spagnolo doc  e  un canto di classe che non sembra aver perso lo smalto. Domingo crea un personaggio nobile e altero, assolutamente estraneo alla logica caricaturale della produzione, ed è per questo che funziona: a prescindere dalla regia, egli interpreta solo se stesso e si crea un ulteriore  livello metateatrale, né tenore, né baritono, “un domingo”.
Bene il Manrico del giovane uruguayano  Gaston Rivero che ha sostituito nella produzione il previsto Antonenko. La voce non è ancora matura per sostenere  lo slancio estremo della “Pira” ma  nel contesto la cosa non disturba in quanto il suo personaggio è un fantoccio sensibile  tutt’altro che eroico. La voce poi ha bel timbro e canta con la musicalità che si addice a un trovatore.
Marina Prudenskaia è una zingara anomala di timbro particolarmente chiaro, dalla linea di canto particolarmente curata. Se ne apprezza la grande musicalità ed il controllo dell’emissione, ma è troppo poco temibile e “infernale”.
Un plauso al Ferrando di  lusso di Adrian Sampetrean dalla voce di basso autentico profonda e ben modulata. 

Ben calibrata la direzione di Daniel Baremboin, sfumata e nervosa con squarci di abbandono e impennate briose, che sembra essere mirata a valorizzare (e assecondare) le voci dei protagonisti, anche se talvolta, come nel duetto “Ai nostri monti”, i tempi appaiono fin troppo dilatati.

Standing ovation di rito da parte di un pubblico soddisfatto composto per lo più da abbonati fra cui si mimetizzava, con un understatement molto berlinese, la super cancelliera Angela Merkel.